EDIZIONE 2008
INTERVISTA A GIUSEPPE DE RITA
di VITTORIO PERFETTO
da Il Centro del 22 maggio 2008
L'AQUILA - Lo hanno definito il «Monaco delle cose», per il suo stile canonico, religioso, di esaminare le "cose" e riferirle così come sono, senza filosofie o parteggiamenti. Ed è una definizione, quella di «Monaco delle cose», di cui va fiero. Il professor Giuseppe De Rita, presidente del Censis, romano, 76 anni il prossimo 27 luglio, domani sarà all'Aquila, nella Sala Assemblee della Carispaq, per ritirare il premio “Socrates Parresiastes”, che gli è stato assegnato dall'Associazione culturale Confraternita dei “devoti” di Sant’Agnese, presieduta da Tommaso Ceddia. La Confraternita ha tirato fuori da quella che era una semplice festa delle “malelingue”, la nobile “parresia socratica”, cioè il dire sempre e comunque la verità, anche se ferisce.
Professor De Rita, si sente un maldicente, una malalingua?
«No, non mi sento una malalingua. La maldicenza, per la cultura della Congregazione che mi ha designato, è dire le cose come stanno. Avere la serenità nel dire la verità. Questa motivazione mi corrisponde, per certi versi. In 55 anni di mestiere, ho sempre detto quello che pensavo. Scrivo quello che vedo, non invento. Conosceva questo premio? No, è assolutamente originale, al di fuori degli schemi. Non è facile trovare un'iniziativa analoga. Fa piacere comunque essere indicato come uno che non ha problemi a parlare in modo "infiocchettato" e non sono abituato a dire le cose per far piacere a qualcuno».
Non ha mai preso posizione politica?
«Vivo ai bordi della qualità della vita, sono un ricercatore sociale, non sono un politico. Dico le cose che vedo, non in una dimensione di volontà di dire del male. Ma questo, spesso o qualche volta, dipende, fa arrabbiare qualcuno. Faccio un esempio: ho fatto un'intervista sul Corriere della Sera qualche giorno fa. Mi chiedono sul piano culturale quale differenza c'è tra Roma e Milano. Ho risposto che Milano ha una solidità culturale più forte. Il giorno dopo esce un comunicato "risentito" dei tre rettori delle Università di Roma, nel quale dicono che "non è vero, siamo grandi università, abbiamo anche vinto un progetto nel Dubai". Quella mia è stata considerata una maldicenza. Invece ho constatato solo la verità. In questo mi riconosco nel premio».
Non le creano imbarazzo, però, le sue posizioni intransingenti?
«Per niente. Tante volte sono stato scopritore del localismo, andando per città minori. Questo è il lavoro del ricercatore. I miei amici, anche premi Nobel, mi hanno tacciato a volte di essere "amico degli stracciaroli". Il risultato, però, è la verità dei fatti e di quello che vedo, senza polemica, altrimenti sarei un ideologo».
Conosce l'Abruzzo? È una regione che appartiene più al Sud o al Centro-Nord d'Italia, sia a livello economico, che sociale?
«Conosco molto bene l'Abruzzo, ho fatto molte ricerche all'Aquila, Pescara, Teramo. Sono stato a Natale scorso a Caramanico. L'Abruzzo è più vicino al Centro-Nord che al Sud. È come le Marche, sia dal punto di vista geografico, che economico. Oddio, non è un po' azzardato? L'economia marchigiana sembra molto più florida e vivace di quella abruzzese. E indubbiamente lo è. Ma parlo del rapporto costa-aree interne. Loro, le Marche, sono avanti perché hanno capito il ruolo dell'uno e dell'altro. Le aree interne sono destinate a doversi per forza rapportare con la costa, dove c'è un'economia più florida e più viva. La costa, in tutte le regioni adriatiche, è un riferimento fondamentale. Nelle Marche hanno capito che quella della montagna è un'industria e, quindi, non aspettano l'arrivo delle "altre" industrie. In Abruzzo, dove c'è una montagna da tremila metri da gestire, questa cultura non c'è, ma esiste un po' la cultura montanara della rassegnazione. Non si è riusciti a valorizzare il Gran Sasso, ma è un problema di gestione della dimensione montana e non politico, nel senso che la montanga ha una sua caratteristica e questa gestione non arriva ai tremila metri».
Si può uscire da questa situazione?
«Assolutamente sì. Bisogna prendere coscienza, sempre a livello culturale, che tutto si svolge nella costa, dove c'è il riferimento fondamentale. E questa è una constatazione pure e semplice, la verità, appunto, come dicevo. Partendo da questo, le aree interne sono sostanzialmente valli, che fanno riferimento alla costa. Nelle Marche tendono a essere integranti con la costa: borghi per il turismo ad alto livello, gli olandesi che acquistano i ruderi e li restaurano, ci vanno a vivere extracomunitari che fanno i pendolari con la costa. L'Abruzzo non ha questa "discesa" delle singole valli, ancora troppo povere. Ma c'è la possibilità di integrazione, della divisione dei compiti. Il destino delle aree interne è di integrarsi con la costa. E non è un destino di serie B».
Nei suoi studi ha trovato qualche esempio abruzzese di integrazione?
«Penso a tutta la Val Pescara. Una situazione dove ci sono le terme di Caramanico, dove stanno facendo dell'ottimo vino, i paesi vengono ristrutturati dal punto di vista urbanistico ed edilizio. Ci sono due autostrade che sono una grande cosa per l'Abruzzo: trent'anni fa era impensabile arrivare da Roma a Pescara o Teramo in poco più di un'ora».
A proposito di infrastrutture, come è messo l'Abruzzo?
«Ci sono infrastrutture intermedie: strade più vecchie, senza possibilità di crescita. Eppoi, la ferrovia Pescara-Roma è un punto cruciale. Anche se è una caratteristica che hanno tutte le aree adriatiche. Da Perugia ad Ancora, per esempio, occorre in treno un'ora e mezza, per fare solo 126 km. Per la dimensione ferroviaria, c'è questa non cultura dell'asse orizzontale Est-Ovest».
Conosce il progetto dell'albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio, dove oramai vanno molti vip, anche dall'estero?
«Francamente non lo conosco, ma a questo punto sarà la mia prossima meta. Lo visiterò quanto prima. In questi piccoli centri, ma anche nelle metropoli, come Trastevere, a Roma, è possibile recuperare quel senso di integrazione sociale, di fare comunità che permetterebbe di condurre una vita qualitativamente più alta. Senza intraprendere questa strada, l' individualismo sconfinerà presto nell'egoismo e nel soggettivismo, che porteranno all'immoralità».
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