EDIZIONE 2009
IL PALIO DI SANT'AGNESE
UN PALIO AQUILANO DI SANT’AGNESE
DALL’ANTICO VERSO IL XXI SECOLO
di Amedeo Esposito
E fu palio (anche del valore di 25 ducati) in onore di Celestino, che investì popolo minuto e nobili! Perché – narra il cantore aquilano Buccio di Ranallo - «...Lui alzò assai L’Aquila».
«Alzò a dignità di uomini» quanti non avevano nessun censo ed i pellegrini provenienti da ogni dove, resi eguali ai nobili ed ai re dinanzi allo straordinario dono (1294) del Perdono, ormai memoria e radici che la città dovrebbe avere nel suo Dna, ma che non ha, poiché spenta, dal terremoto del 1703, la luce della Candelora un buio profondo coprì immutabilmente la coscienza aquilana medioevale. Eppure sono memoria e radici che dicono, fra l’altro, anche del costante, inesorabile allontanamento dei potenti dal popolo degli umili e dei diseredati.
Posta ai confini settentrionali del Regno delle due Sicilie, a chiusura dell’immensa porta aperta attraverso la quale i nemici erano facilitati negli assalti del territorio, L’Aquila riunì uom ini e donne di circa 70 centri o castelli (il numero 99 entrò successivamente nella leggenda) del versante forconese (italico-vestino) e di quello romano di Amiterno.
«...Lo cunto serrà d’Aquila, magnifica citade:/et de quelli la ficero con grande sagacitade/Per non essere vassalli cercaro la libertade/Et non volere signore set non la magistrate...», premette alla sua cronaca Buccio di Ranallo (morto nel 1363).
Non v& rsquo;è da dubitare che le volontà iniziali tendessero all’intesa fra le genti di diversa estrazione che non accettarono mai principi, ma sempre si affidarono a magistrati da loro eletti.
Eppure la città nova entrò, nel 1257, nelle cure finanziarie di Enrico III d’Inghilterra. Così come accadde l’anno prima, quando gli aquilani, dopo aver sconfitto «presso Antrodoco l’esercito di Mafredi, alleatosi con i baroni traditori e genti del reatino», dai delegati pontifici ebbero pr estiti destinati al «negostium Siciliane ac defensionem civitatis Aquilae», riferisce Maria Rita Berardi (la storica custode indiscussa delle vicende, anche maldicenti, del medioevo aquilano).
Apparvero questi interventi come atti per evitare le clamorose divisioni, non senza l’uso delle fustiganti insolenze, tra città e campagna (castelli, ville e centri di provenienza dei nuovi cittadini aquilani).
Dicotomia mai sanata, tanto che giocoforza, per cercare il rasserenamento dell’anima duale cittadina (vestina ed amiternina), nel 1355 – nota Raffaele Colapietra - si pervenne all’istituzione «di un governo di classe a base esclusivamente cittadina».
Per i fiorenti commerci e le attività produttive, e soprattutto per la presenza di grandi banchieri (i Gaglioffi in prima linea), i Magistrati civici ebbero anche ad affrontare, agli inizi del Quattrocento, una sorta di multiculturalismo (per essere nell’oggi) costituito da alcune comunità immigrate: albanesi; ebrei sefarditi (da Sefard primitivo nome della Spagna) riparatisi dalle persecuzioni musulmane all’Aquila (occupando l’area del quartiere oggi di San Flaviano) e nei dintorni, nonché a Lanciano e Sulmona; teutoni, scesi di Germania con la loro Sant’Elisabetta, preceduti dai francesi che tennero il governo dei celestini sedendo sulla cattedra della basilica di Collemaggio; delegati di Firenze, lombardi e veneziani.
Fu dunque epoca d’oro per L’Aquila che non escluse la maldicenza, o la tenzone orale burlesca e beffarda degli umili contro i nobili, ed incluse la disputa di palii in onore dei santi protettori di allora: oltre a S.Pietro Celestino, San Bernardino, San Massimo, e Sant’Equizio.
Scrive Luigi Lopez (rifacendosi alle polverose carte d’archivio visitate da Raffaele Colapietra) che rigorose «norme intese a solennizzare la festa del Santo Celestino furono stabilite con una deliberazione del consiglio cittadino del 10 maggio 1434, deliberazione poi entrata fra i capitoli degli Statuti cittadini», e cioè nelle tavole della legge civica aquilana. Norme che contemplavano, fra l’altro, l’indizione dei palii ed anche l’elezione di tre deputati per ogni quarto i quali dovevano organizzare balli per quattro giorni. Suonavano per tutti i giorni di festa pifferi, trombe e zampogne, a cui successivamente si aggiunsero arpe, liuti, cetre, viole e violini.
«...Le botteghe – prosegue Lopez – dovevano restare chiuse nel pomeriggio di tali giorni, oltre che per l’intero giorno della festa, nel quale era proibito lavorare; pena stabilita per l’infrazione a tali norme la multa di un’oncia d’oro». I palii contemplavano corse di cavalli puro sangue o barberi cavalcati da conti, baroni, e anche da vescovi e qualche volta da cardinali, mentre al popolo minuto erano riservati ronzini o cavalli di seconda scelta. «Il bando del 1593 prevedeva per il vincitore nella corsa dei barberi il premio di una pezza di velluto cremesi lunga cinque canne... e per quella dei ronzini una pezza di velluto nero di due canne».
Come dire: gli straccia ai diseredati.
Si ebbero palii anche per «corse a piedi disputate dagli uomini ignudi e per la lotta», a cui partecipavano «aquilani della città, del contado, abruzzesi in genere, reatini, umbri, ciociari, molisani qualche pugliese o calabrese».
Di quegli uomini ignudi e di tutti gli altri miseri, pur in gran numero superiore ai nobili, le cronache ignorano i volti ed i nomi, dicono però della loro voce che mai usi affievolì neanche dinanzi ai grandi rivolgimenti dell’assetto della città in seguito ai numerosi e ripetuti terremoti (1328,1398, 1423, 1462,1498). Tutt’altro!
Folla anonima mai considerata – soprattutto nel lungo e buio tempo degli spagnoli – che ebbe però la forza di levare la voce alta contro i nemici ed i potenti.
Voce che si disse essersi materializzata – secondo Lopez – nel lontano 1694, quando «...fra tanti fuochi di artificio, piogge di stelle, lampi e girandole, da una delle fontane della piazza del mercato partì verso il cielo un fulmine, quindi al centro prese ad ardere un ordigno gigantesco sulla cui sommità apparve alla fine un’aquila».
Quell’aquila- emblema delle libertà comunali di cui godettero gli aquilani negli anni d’oro del Tre-quattrocento- per gli intellettuali del tempo fu conferma e prassi dell’intelligenza del popolo minuto per la logica e l’arguzia e per la potenza della satira e dello sdegno, insiti nella maldicenza (dire male del male) scaturita già nei quattro secoli precedenti dalle «bettole fumose» della città ad opera della malmaritate (le passeggiatrici di oggi).
I popolani aquilani non ebbero altre armi se non la lingua per valicare in qualche modo l’oppressione dei potenti, a difesa della città libera e allora profondamente amata. Parlando e criticando, anche a costo di vedersi tagliar la lingua (editto 687 del 10 maggio 1434) per restar liberi entro e fuori i loro quarti (quartieri) sempre compresi nell’ambito delle mura.
Furono e sono critici maldicenti, mai offensivi, ben sapendo, per dirla con Proust, che: «...il pettegolezzo (gossip nel moderno) impedisce all’intelligenza di addormentasi sulla visione fittizia di ciò che essa crede la realtà e non è che l’apparenza».
Di qui la decisione dell’Associazione dei “Devoti di Sant’Agnese” e delle altre numerose Confraternite agnesine, di guardare all’antico, per cercare di promuovere il presente, ideando, per la loro festa strana, il “Palio di Sant’Agnese” destinato alla tenzone, fra le Confraternite stesse, di critica sincera e costruttiva fondata sulla tradizione, attraverso componimenti in lingua o in dialetto che «dicano male dei mali» dell’Aquila.
La confraternita vincitrice si aggiudicherà, e lo custodirà per un anno, il Palio, opera d’amore- dedicata a tutti gli aquilani, ci vien da dire- dell’architetto Giuseppe Santoro che, rifacendosi ai fasti medioevali, ha restituito alla città le insegne delle libertà civiche: l’aquila rampante rossa, con lingua di fuoco. Incluse entro un panno candido quadrato «...nella perfetta filosofica proposizione universale affermativa dell’ogni uomo corre» verso la sua pur minima storia.
L'Aquila, dicembre 2008
Amedeo Esposito
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