Nel “Saggio sulla genesi del capitalismo”, Luciano Pellicani ricorda come il senso ed il concetto della virtù sociale dell’impresa, sia locale sia internazionale, sia nato in Italia, nel rinascimento fiorentino, prima di essere soffocato dall’oscurantismo della Controriforma, ed essere costretto ad emigrare nelle Libere Province olandesi, segnatamente a Amsterdam.
In “Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia”, il Premio Nobel Douglas C. North vede in questa forma di localizzazione, ossia di capacità di coniugare le tradizioni civice ed il capitale sociale (caratterizzato con una forte base territoriale) l’avvio della modernizzazione, dell’età moderna. Le interpretazioni recenti del Nuovo Testamento, vedono San Giuseppe non in un’ottica pauperistica, ma come un imprenditore consapevolissimo della propria funzione sociale e del proprio ruolo in mondo, quello dell’Impero Romano, fortemente integrato sotto il profilo politico ed economico: che altro è un falegname da sottoporre a censo (quindi da “censire”) in una società a livelli di mera sussistenza, caratterizzata da pastorizia e da agricoltura itinerante in cui la trazione animale è ancora in via di introduzione?
Il bel recente manuale di Pasquale Lucio Scandizzo “Il mercato e l’impresa: la teoria ed i fatti” è quasi interamente articolato sulle responsabilità sociali dell’impresa e sul loro estendersi dal livello locale a quello internazionale, mantendo forti radici nella società, e nel territorio, in cui l’”intrapresa” è nata: in questa luce vengono interpretati i diritti di proprietà, le regole di contabilità , le trasformazioni industriali ed i beni relazionali strettamente associati all’attività imprenditoriale.
Per delineare il significato della localizzazione nelle istituzioni, cerchiamo, innanzitutto, di definire il termine. E’ la sintesi di due parole che in apparenza esprimono concetti contrapposti: globalizzazione e localizzione. Con la prima si intende, il processo di integrazione dell’economia mondiale conseguente l'aumento dei flussi finanziari, commerciali e migratori tra Paesi e regioni economiche, oltre i confini nazionali e continentali, tramite il quale cresce l'ambito geografico di interazioni sociali con forti implicazioni locali.
Negli ultimi 30 anni, la globalizzazione. è stata accelerata dal progresso tecnico che riduce il costo dei trasporti e soprattutto, tramite le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, consente trasferimenti di capitali in tempo reale, dall’abbattimento delle frontiere agli scambi di beni e servizi derivante dai negoziati multilaterali sugli scambi, dalla messa in atto di vasti mercati comuni e zone di libero scambio, dalla liberalizzazione delle regole concernenti la circolazione dei lavoratori e lo stabilitimento delle imprese. Il processo di globalizzazione finanziaria è già molto avanzato: le transazioni quotidiane sui mercati finanziari internazionali (oltre 1500 miliardi di dollari) erano pari al prodotto interno lordo (p.i.l.) annuale di un Paese di grandi dimensioni come l'Italia.
La globalizzazione sta crescendo rapidamente anche negli alti aspetti dell' economia ad esempio:
a) tra il 1970 ed il 2000, i flussi degli investimenti diretti all'estero sono aumentati ad un tasso annuo superiore al 10% mentre il p.i.l. mondiale cresceva ad un tasso annuo del 4%;
b) nell'ultimo quarto di secolo, il tasso di incremento delle esportazioni mondiali ha superato del 50% quello relativo alla crescita della produzione interna di beni e servizi;
c) tra il 1965 ed il 2000 su scala internazionale il numero di "lavoratori migranti" (definiti tali in nati in un Paese differente da quello in cui lavorano) è passato da 75 a 120 milioni e, alla fine del 1994, nel mondo c'erano ben 30 milioni di "profughi" (definiti ufficialmente tali in quanto autorizzati a soggiornare e lavorare in Paesi differenti da quelli di origine a causa di determinanti politiche e/o disastri naturali) – un numero superiore a quello della popolazione del Benelux.
La globalizzazione comporta profonde trasformazioni nell'assetto produttivo delle imprese e nel loro ruolo. Ad esempio, già alla fine degli Anni Ottanta una Ford Escort montata negli impianti di Halewood in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica Federale Tedesca conteneva parti prodotte nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada e Francia; alla fine degli Anni Novanta, un'automobile ad essa analoga contiene in misura crescente parti prodotte nei Paesi di nuova industrializzazione dell'Estremo Oriente e del Bacino del Pacifico e nei Paesi in transione dell'Europa Centrale ed Orientale.
Già nel 1990, inoltre, una multinazionale del settore petrolifero come la Exxon aveva un fatturato annuo che superava il p.i.l. di Paesi europei come la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Grecia, l'Ungheria, l'Islanda, l'Irlanda, il Lussemburgo, la Norvegia, la Polonia, il Portogall, la Romania, la Turchia e la Jugoslavia, nonché di numerossimi Paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina.
Tale riassetto ha ramificazioni molto importanti non solo per le imprese, per i loro azionisti, per il loro managament, per i loro lavoratori ma per tutta la società, ma anche e soprattutto per le istituzioni. Da esso deriva, infatti, che mentre a livello mondiale sta emergendo, in via tanto formale (trattati, accordi e convenzioni internazionali) quanto sopratutto informale (prassi ormai consolidate ed accettate da tutti i soggetti interessati), un nuovo diritto pubblico dell'economia - in effetti una vera e propria nuova lex mercatoria solo in parte scritta - che aggrega i grandi interessi interessi internazionali, i diritti pubblici nazionali dell'economia - la lex fisci del battere moneta e riscuotere tasse - si erode progressivamente: la liquidità internazionale e la ricchezza finanziaria sfuggono ormai al monopolio delle banche centrali e delle autorità fiscali dei singoli Stati in quanto le prime non dispongono degli strumenti per pilotare i flussi finanziari internazionali o solamente contenere gli effetti e gli impatti e le seconde hanno la loro potestà fortemente limitata dal fatto che, in misura sempre più ampia, imprese ed individui possono scegliere dove e come essere soggetti fiscali.
Tale sostituzione dei diritti pubblici dell'economia dei singoli Paesi con un diritto pubblico internazionale dell'economia in gran parte non scritto ha implicazioni sociali molto vaste anche nei singoli ambiti e livelli locali in quanto i comportamenti dei soggetti tanti individuali quanto collettivi seguono il secondo piuttosto che il primo: la globalizzazione incide sui modelli di consumo e di risparmio, sugli stili di vita, sulle relazioni nell'ambito di gruppi sociali intermedi come la famiglia, il sindacato, le associazioni e le cooperative, sugli stessi rapporti interpersonali.
Sotto il profilo economico e sociale, ciò implica, soprattutto, vasti e profondi fenomeni di riordino della produzione e di delocalizzazione , in parte od anche in toto, dei processi produttivi di beni e servizi. Alcune indicazioni sono eloquenti:
a) dal 1990 al 1995, la United Technologies - un conglomerato della metalmeccanica avanzata con sede sociale nel Connecticut (Stati Uniti) - ha eliminato 33.000 posti di lavoro (un terzo dell'organico totale) negli U.S.A. per crearne 15.000 all'estero;
b) le principali linee aree europee hanno trasferito in Asia (principalmente in India) i loro servizi di contabilità e di emissione delle prenotazioni e dei biglietti;
c) dalla prima metà degli Anni Novanta, la crescita netta di impieghi relativi alle attività delle piccole e medie imprese dei "distretti industriali" dell'Italia Centrale è avvenuta quasi interamente in Paesi dell'Asia, del Bacino del Mediterraneo e dell'Europa Centrale ed Orientale dove è stata "spostata" parte della produzione tramite contratti di sub-appalto e licenza ad imprese locali.
Il differenziale salariale è una delle determinanti della delocalizzazione : in Asia, America Latina, Bacino del Mediterraneo ed Europa Centrale ed Orientale, nell'industria manufatturiera i salari sono pari al 20-30% quelli prevalente nel Nord America ed in Europa. Le differenze di costo del lavoro per unità di prodotto (tenendo, dunque, conto del differenziale di produttività) sono molto meno marcate: in breve, secondo studi recenti, solo un numero limitato di Paesi, principalmente dell'Estremo Oriente (Corea, Tailandia) e dell'America Latina (Argentina, Messico), hanno indici del costo del lavoro per unità di prodotto significativamente inferiori (dal 25% al 40%) di quelli nei maggiori Paesi industriali ad economia di mercato.
Studi recenti suggeriscono che la delocalizzazione è determinata più che dai differenziali di salari e di costo del lavoro per unità di prodotto dalla I) prossimità con le fonti di produzione delle materie prime e con i mercati di sbocco per certe categorie merceologiche dell'industria manufatturiera; e II) dalla maggiore propensione delle forze di lavoro dei Paesi dell'Asia, dell'America Latina, del Bacino del Mediterraneo e dell'Europa Centrale ed Orientale ad operare su certe linee di attività. All’inizio del 21simo secolo oltre l'80% della mano d'opera industriale mondiale è localizzata nei Paesi in via di sviluppo.
Nell’ambito di questi ultimi, quelli che più hanno hanno beneficiato dell’integrazione economica internazionale ed in cui, dunque, le esportazioni sono aumentate rapidamente, i salari reali sono aumentati a tassi annui del 3% anche in quanto il 60% della crescita della massa salariale aggregata delle imprese multinazionali è localizzato in questi Paesi e non in quelli industrializzati ad economia di mercato.
A livello internazionale, i costi della globalizzaione, in termini di perdita posti di lavoro e di contenimento della crescita dei salari nei Paesi industrializzati ad economia di mercato, sono stati ampiamente compensati dai benefici in termini di creazione di posti di lavoro e di aumento dei salari reali nel resto del mondo.
Per localizzazione, invece, si intende un processo di forte radicamento in norme, regole e reti che facilitano l’azione di gruppo ed alimentano una comunità. Sino a tempi recenti, il concetto era, di solito, connesso ad una base territoriale molto specifica. Come, in un saggio a quattro mani con Giuseppe De Filippi, ho dimostrato a ragione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il rilievo della base territoriale si è affievolito.
Ciò che conta è “il capitale sociale” in comune. Di ”capitale sociale” si sono inizialmente interessati i sociologi e gli scienziati della politica1, ma il concetto ed il termine hanno anche guadagnato notevole terreno tra gli economisti, specialmente in seno alla scuola neo-istituzionalista. Nelle analisi dei processi di sviluppo tanto dei Paesi ad alto reddito pro-capite quanto di quelli emergenti, nonché , e forse ancor di più, di quelli, principalmente dell’Africa a sud del Sahara e dell’Asia centrale, che non riescono a decollare, il ”capitale sociale” ha assunto un ruolo avuto negli Annni Sessanta e Sessanta dal “capitale umano” come componente essenziale del “fattore residuo”.
Spieghiamo il significato di questi termini a chi non è avvezzo alla semantica della letteratura sullo sviluppo economico e di quella più recente sulla teoria economica delle informazioni, della comunicazione, delle emozioni e quindi delle istituzioni. Già all’inizio degli Anni Sessanta, un lavoro di Edward Dennison, considerato pionieristico per le tecniche statistiche allora impiegate, concludeva che i fattori di produzione intesi in senso stretto – il capitale ed il lavoro – non erano sufficienti a spiegare nè le ”fonti” della crescita economica nè perché i tassi di crescita differiscono.
Dennison formulò il termine “fattore residuo” per individuare tutto ciò che non poteva essere classificato come ”capitale” e come ”lavoro” in base ai metodi ed alle tecniche di elaborazione della contabilità economica nazionale. Per opera di una vasta scuola di economisti, tale “fattore residuo” venne, in gran misura, fatto coincidere con il “capitale umano”, ossia con i differenziali di produttività derivanti da investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo.
Da qui l’accento posto per decenni su investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché su appropriate politiche in questi settori visti sotto il profilo economico, non soltanto o prevalentemente socio-culturale.
A quarant’anni circa delle analisi di Denison, e sulla base di un apparato statistico ed econometrico molto più ricco di quello di cui si disponeva nel 1962, nuove analisi sulle fonti dello sviluppo giungono a conclusioni analoghe di quelle di allora, nonostante l’enfasi di circa mezzo secolo sul “capitale umano” e sulle politiche ad esso inerenti.
Eloquente a riguardo, la recente rassegna di Easterly e Levine con la quale, sulla base di dati di 21 Paesi dal 1940 al 1990, si documentano questi stilemi:
a) il “residuo”, ossia la produttività totale dei fattori, conta molto di più dell’accumulazione dei fattori di produzione nello spiegare differenze di reddito e di crescita tra Paesi;
b) nel lungo periodo, i redditi pro-capita divergono (invece di convergere);
c) mentre l’accumulazione dei fattori è persistente, la crescita non lo è in quanto caratterizzata da pause e da interruzioni (a volte anche prolungate e pure profonde);
d) l’attività economica tende a concentrarsi nelle aree più ricche ed a maggior reddito;
e) le politiche economiche nazionali sono strettamente associate con i tassi di crescita economica di lungo periodo. “Le analisi empiriche – concludono Easterly e Levine - non vengono a supporto di modelli tradizionali basati su accumulazione di capitale, rendimenti decrescenti, rendimenti costanti di scala, e fattori di produzione fissi. Tuttavia, il lavoro empirico non distingue ancora tra le differenti definizioni e concezioni di produttività totale dei fattori; gli economisti devono dedicare maggior tempo e maggiore attenzione a modellizzare e quantizzare la produttività totale dei fattori”.
Come si è detto, il lavoro definitorio e concettuale su ”capitale sociale” è stato condotto, in gran misura da sociologi e scienziati della politica a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta, solo nell’ultimo lustro il tema ha interessato gli economisti.
Veniamo ad una definizione economica, ove non economicistica, di “capitale sociale”. Da alcuni testi recenti, si può ricavare questa: “il capitale sociale è la dimensione istituzionale delle transazioni, dei mercati e dei contratti tramite la quale si stabiliscono relazioni stabili e si condividono informazioni tra soggetti economici (individui, imprese, pubblica amministrazione) in modo da potenziare l’efficacia e l’efficienza del modo di conseguire interessi collettivi ed individuali. E’ di particolare rilievo nell’analisi delle imperfezioni di mercato in cui sono in ballo beni pubblici o beni sociali/meritori. La “fiducia”, elemento di rilievo nel capitale sociale, viene interpretata, pure sotto il profilo formale in quanto aspettativa relative alle azioni degli altri che ha un peso sulla scelta del corso di azione del soggetto in esame”.
Proprio l’accento sui rapporti fiduciari coniuga “capitale sociale” con localizzazione lo pone come l”anello mancate” per interpretare i processi di sviluppo, per prevedere i risultati probabili e per tracciarne il percorso, od influenzare quello “predeterminato” da esperienze storiche e valori culturali.
A differenza del capitale fisico, finanziario ed in parte anche umano, il “capitale sociale” di un gruppo e di una comunita non diminuisce e non si erode con l’uso, ma al contrario aumenta e si arricchisce: a differenza del capitale fisico, finanziario ed anche umano, il “capitale sociale” è relazionale e, quindi, cresce con l’interazione ripetuta di individui ed imprese nell’ambito di un gruppo o di un distretto o di una rete internazionale.
Il volume di “capitale sociale” posseduto da una persona data dipende dalla dimensione del newtwork che è in grado di mobilizzare. Altre analisi pongono enfasi sul ruolo dell’informazione e della comunicazione per far sì che il “capitale sociale” venga costruito come risorsa personale dell’individuo.
Un filone più recente vede il ”capitale sociale” come proprietà di comunità e di gruppi (sia formali sia informali), pone l’accento sulle “crafting institutions” (le istituzioni “artigiane”, spesso esterne alla comunità ed al gruppo, che con incentivi creano e potenziano il “capitale sociale”); ancora una volta l’informazione e la comunicazione sono centrali alla costruzione ed all’arricchimento del network, aspetto fondante del “capitale sociale”.
Il maggior maggiore beneficiario del “capitale sociale” è la società in senso lato; pur beneficiando una comunità od una società specifica, il “capitale sociale” irradia l’intera società e modifica, in melius, l’interazione economica interpersonale riducendo costi di transazione, selezione avversa e azzardo morale; in queste versioni l’informazione e la comunicazione hanno un ruolo ancor più centrale, non solo nelle accezioni della letteratura sociologica e politologica ma anche in quelle rigorosamente economiche quali l’interpretazione proposta in un recente saggio del Premio Nobel Amartya Sen in cui si pone l’accento sul linguaggio e sulla comunicazione come elementi fondanti del “capitale sociale”.
Tutto ciò può sembrare astratto. Non era, però, astratto l’Unternehmen dei Buddenbrooks in quel di Lubecca, come non lo sono le centinaia, anzi migliaia di imprese italiane che prendono l’avvio da un forte “capitale sociale”, spesso su base locale, per operare nella globalizzazione. L'economia italiana ha, infatto, tradizionalmente un alto grado di apertura al commercio internazionale: l'export è pari al 23% del p.i.l e l'import al 20%.
Tuttavia, la globalizzazione e, quindi, anche la glolocalizzazione sono stati fenomeno relativamente tardivo, e accentuato unicamente a partire dalla seconda metà degli Anni Ottanta. Sino ad allora, in effetti, vincoli valutari - oltre che una chiusura relativamente forte della società italiana rispetto al resto del mondo - facevano sì che, nonostante l'alto grado di apertura al commercio internazionale, l'Italia fosse tra i sette maggiori Paesi industriali uno dei meno globalizzati: ancora nel 1985, l'Italia era, con il Canada, il solo tra i grandi Paesi industriali a presentare un saldo negativo nella bilancia tra investimenti diretti all'estero in uscita ed in entrata, mentre oggi tale bilancia è sostanzialmente in pareggio in quanto gli investimenti diretti italiani all'estero sono cresciuti di ben due volte e mezzo nell'arco degli ultimi dieci anni.
Alla metà degli Anni Novanta, erano ben 445, le ”multinazionali” a base italiana, ossia i gruppi o le imprese autonome che partecipano in almeno un'impresa industriale all'estero dotata di stabilimento produttivo. All’ultima conta, al primo gennaio 2004, 5.415 imprese italiane hanno partecipano in oltre 15.000 imprese estere (con un totale di oltre 1.100.000 dipendenti) ed un fatturato di 265.625 milioni di euro; 4.600 imprese italiano hanno partecipazioni di controllo in imprese estere (per 900.000 dipendenti ed un fatturato di 211.000 milioni di euro). Una caratteristica, rispetto ad altri Paesi, è che le ”multinazionali” italiane hanno spesso una base ”nazionale” di media portata – oltre la metà hanno in Madrepatria meno di 500 dipendenti.
E le istituzioni? Se con il termine indichiamo non le organizzazioni ma le regole, anche e soprattutto, non scritte, seguite nell’operare, ossia la lex mercatoria a cui si è fatto cenno in precedenza. Essa nasce e si evolve dall’interazione tra integrazione economica internazionale e “capitale sociale”. Esempi recenti (quali le interpretazioni di regole come quelle del Fondo Monetario e dell’Unione Europea) mostrano come essa sia molto più cogente di quanto prodotto delle organizzazioni formali. Giuseppe Pennisi