Il tema che il congresso ha dinanzi non è da poco. Si può "dire male" di qualcuno in vari modi, che si possono ordinare lungo una scala di perfidia crescente. Anzitutto c'è il pettegolezzo: si parla coram populo degli affari degli altri, specialmente di quelli riservati (sempre gli stessi: amori e sesso, denaro, malattie, relazioni), rendendo pubblico quel che non lo è.
Poi c'è la critica ad ogni costo ("tagliare i panni addosso"), consistente nel mettere in rilievo, di una persona, solamente i difetti, i fallimenti e gli spropositi. Più avanti nella scala metterei il pettegolezzo mendace, che induce a inventare storie (per lo più denigratorie) di sana pianta e ad attribuirle a qualcuno per metterlo in cattiva luce. Infine, al grado estremo, vedrei la iettatura: lanciare addosso agli altri cattivi auguri contando che abbiano effetto.
La maldicenza e in generale il "dire cose cattive" sono temi terra terra solo in apparenza. Pochi sanno, ad esempio, che sono al centro dell'attenzione di filosofi e teologi. Nella tradizione cattolica la maldicenza è infatti catalogata come un peccato ed è una cosa da raccontare al confessore.
In un bellissimo libro del 1987 (I peccati della lingua, edito dall'Istituto della Enciclopedia Italiana), Carla Casagrande e Silvana Vecchio hanno ricostruito con grande perizia il modo in cui i filosofi medievali classificavano le complicate arborescenze delle opere cattive che si possono commettere con la parola: la maldicenza era tra i più gravi.
Naturalmente, in quell'epoca (e sicuramente anche ora), quei "peccati" erano considerati tipici delle donne: supposizione maligna e a sua volta maldicente, dato che gli uomini con la lingua lunga non sono certo meno numerosi delle loro controparti.
Il comunicato stampa del congresso aquilano ricorda che la maldicenza è anche uno strumento di "valenza sociale e di vero antagonismo". Suppongo che questa formula voglia dire che la maldicenza fa paura, a chi ne è vittima e a chi la pratica, anche perché può entrare in circolazione nella società. A pensar male, dice un famoso motto, si fa peccato ma ci si indovina. Si può aggiungere che, a parlar male, si fa peccato ma un risultato lo si ottiene lo stesso: una volta messa in circolazione, infatti, la maldicenza si attacca inspiegabilmente alla sua vittima e può restarle incollata addosso per sempre, come un cancro rabbioso.
Ma com'è possibile questo, se la maldicenza non è che una sequela di parole, di "flatus vocis", di futili suoni che svaniscono nell'aria? Sigmund Freud ha proposto un'interpretazione che a me pare, a distanza di quasi un secolo, ancora molto solida, parlando di "potenza della parola" e di "onnipotenza del pensiero".
"Originariamente - spiega ad esempio nell'Introduzione alla psicoanalisi (1917) - le parole erano magia, e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l'altro o spingerlo alla disperazione, (...) con le parole l'oratore trascina con sé l'uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni".
La malalingua, come lo iettatore, conta proprio su questo: è convinto che le parole (cattive) che pronuncia a proposito di qualcuno possano diventare realtà per il solo fatto di essere dette.
La maldicenza è paradossalmente affine all'augurio, perché si basa sullo stesso principio: anche quando si dice a qualcuno "Buon Natale!" ci si aspetta che queste parole "agiscano". Freud faceva un passo ulteriore, delicatissimo: il potere magico della parola è all'origine delle religioni. "E Dio disse: "Sia la luce!", e la luce fu".
La malalingua, in fondo, vive in una sorta di delirio di divinità: pensa che basti dire, come Dio, qualcosa (di cattivo) a proposito di qualcuno, perché quella cosa si trasformi in realtà. Il guaio è che a volte ci riesce...
Raffaele Simone