Che cosa significa "dire male"? Da un lato il sintagma sottolinea ogni uso retorico improprio, inefficace e confuso delle parole; dall'altro, nella concreta trasformazione della retorica in un'arma contro qualcuno o qualcosa, ciò che la maldicenza è nella sostanza: atto aggressivo, uso delle parole per colpire l'altro in modo subdolo, dunque socialmente temibile ed eticamente riprovevole. La calunnia che colpisce vilmente alle spalle è non a caso, nel Barbiere di Siviglia di Rossini, "un venticello", "un'auretta assai gentile", pronti a diventare ben presto "un colpo di cannone", come recita la celebre aria di Don Basilio.
Questo "dire male" è stretto parente della decadenza del dialogo e della discussione nella società moderna che Arthur Schopenhauer biasima nel suo volume L'Arte di insultare. Il pensatore osserva che, quando un avversario è superiore e c'è il rischio di aver torto, si diventa "offensivi, oltraggiosi, grossolani", e contro tale trappola, contro una simile, banale volgarità della cultura, invita ad essere guardinghi. L'insulto, con la sua portata di scherno e di beffa, fa sentire vincitori; ma è cosa vecchia se, nell'Eneide (II, 330), Virgilio può parlare per l'esattezza di "victor insultans", cioè del vincitore che esulta ed esibisce la propria vittoria divenendo così insolente verso chi ha malauguratamente perduto.
La maldicenza, allora, è quel "dire male" che segna uno dei possibili fallimenti della parola, usata per danneggiare, confondere le carte, depistare dalla verità. Eppure fin dagli albori dell'uomo, segno, linguaggio ed etica sono strettamente connessi, come è importante ricordare da un punto di vista antropologico. Il linguaggio scaturisce infatti da quell'originario segno ostensivo, carico di significato, in grado di bloccare la violenza indiscriminata del gruppo davanti alla preda animale, che deve essere spartita per la sopravvivenza dei suoi membri.
In quella maldicenza, in quel "dire male" quindi, l'essere umano non abita più le proprie parole, ne è anzi un distruttore, perché ne uccide il senso profondo di scambio di sopravvivenza e di unione civile, rendendola come l'acqua che scorre, pura funzione sonora e maschera della verità.
Quando invece si dice "il male" si è nel campo nella denuncia aperta, si assume la responsabilità delle proprie parole, ma si entra anche nel dominio della satira: sempre contro il potere, le sue istituzioni e figure istituzionali laiche e religiose. Per la sua forza dirompente il "dire il male" necessita pertanto di una canonizzazione entro un genere letterario o, comunque, una ritualizzazione importante. Ritualizzare significa dettare dei comportamenti, che vengono ripetuti secondo uno standard, con ruoli precisi e significati simbolici. La ripetizione ciclica del rito periodico serve per rovesciare l'ordine, ma anche per controllare le molteplici pressioni sociali. Non per nulla la libertà sfrenata del Carnevale, che ribalta impunemente nello scherzo e nel gioco il mondo e le sue leggi, è limitata ad un periodo preciso dell'anno. Il mondo alla rovescia del Carnevale, il suo riso irriverente, le maschere che nascondono, confondono e cambiano l'identità o allentano i freni sociali, erano spesso fonti di grave preoccupazione per i governanti. In età rinascimentale, ad esempio, numerosi furono i bandi degli Estensi tesi a garantire che l'ordine pubblico venisse turbato il meno possibile da violenze, vendette e persino omicidi.
La festa di S. Agnese all'Aquila, preparata e organizzata da diverse vivaci confraternite, è la festa della maldicenza, di un "dire il male" di tutto e di tutti che, attraverso la ritualizzazione, consente l'esplosione e allo stesso tempo il controllo dei conflitti pubblici e privati. La licenza di parola, la possibilità di denuncia, salvaguardata dai canoni di libertà della festa, consente un aperto sfogo del malumore, rendendo appunto pubblica giustizia a chi vi partecipa. Da questo punto di vista la festa di S. Agnese è uno degli usi della cultura popolare più importanti, un vero e proprio segno di una straordinaria tradizione antica.
Si pensi anche all'irriverenza del giullare a cui nel Medioevo è consentito di fare e dire cose spiacevoli e licenziose, ciò di cui danno conto, ad esempio, i versi del contrasto Rosa fresca aulentissima, come ha ricordato pure Dario Fo. Più avanti, tale diritto di irrisione sarebbe stato appannaggio del pazzo Bertoldo, il sempliciotto un po' "toccato", che può ridicolizzare perfino il sovrano, oppure del bambino, il cui sguardo reso puro dal territorio franco dell'infanzia potrà far scorgere che il "il re è nudo", come accade in una famosa favola. Tuttavia è stata un'intera tradizione artistico-letteraria, quella comica e umoristica, a fare della satira, del sarcasmo, del grottesco, del comico, dello humour, insomma del "dire il male", la sua ragion d'essere. Da Pulci a Rabelais, da Swift a Voltaire, da Sterne a Collodi, da Daumier al Tricca, da Tofano a Novello, senza dimenticare l'opera buffa, si è praticata nei secoli una scrittura o un'arte pungente, tramata di ironia e di beffa, tesa a mettere alla berlina la letteratura, i costumi, la società del proprio tempo.
Sarà perché la satira e la critica sono da sempre scomode che una tale secolare tradizione, con l'affermazione del naturalismo verista, sia stata a forza o in maniera improvvida relegata nel teatro comico - quello di Petrolini e Totò per intendersi - o nella letteratura per ragazzi (Pinocchio, Il Giornalino di Gianburrasca ecc.)?
All'Aquila, però, e per fortuna, della festa di S. Agnese, ovvero del "dire il male", si è fatto il centro della vita della comunità cittadina, laica e religiosa: non parliamo di folklore, pensiamo invece ad una bella lezione di cultura e civiltà.
prof.ssa Daniela Marcheschi
* PREMI: DANIELA MARCHESCHI PREMIATA
DALL'ACCADEMIA DI SVEZIA VINCE IL 'TOLKNINGSPRIS'
PER AVER PROMOSSO LETTERATURA SVEDESE
(ANSA) - ROMA, 2 mag 2006- La studiosa italiana, traduttrice e poetessa Daniela Marcheschi ha vinto il Premio internazionale ”Tolkningspris”, assegnato annualmente dall’Accademia di Svezia (quella che decide anche i Nobel) a chi, tra gli studiosi internazionali, si è distinto per la traduzione e la critica della letteratura svedese, in particolare la poesia.
Daniela Marcheschi, lucchese, è nota per aver curato i Meridiani Mondadori dedicati alle Opere di Carlo Collodi (1995) e di Giuseppe Pontiggia (2004), autori ai quali ha dedicato numerosi studi. Oggi insegna a Perugia Antropologia con particolare riguardo all'Antropologia delle Arti; fa parte della redazione della rivista ”Kamen”, nonchè' del Consiglio direttivo della Fondazione ”Carlo Collodi”.
A più di quarant’anni dalla sua istituzione è la prima volta che un italiano vince il ”Tolkningspris”, dopo nomi come Tom Geddes (2002), Paul Britten Austin (2003), Klaus Jurgen Liedtke (2004) e Paul Berf (2005). A Daniela Marcheschi è stato assegnato per aver lavorato a lungo sia nella teoria letteraria, sia nello studio e nella traduzione della scandinavistica.
In particolare, suo il volume critico ”Una luce dal nord. Scritti scandinavi” (Ed. Le Lettere) e sua la traduzione di grandi poetesse scandinave come Karin Boye (”Poesie” - Ed. Le Lettere), Edith Södergran (”La luna e altre poesie” - Ed. Via del Vento), Birgitta Trotzig (”Il sogno del mondo” - Fondazione Piazzola). Per la collana del quotidiano ”La Repubblica”, Marcheschi ha inoltre tradotto nel 2004 August Strindberg, ”Gli abitanti di Hemsö e Il capro espiatorio”, e nel 2005, per l'Almanacco dello Specchio Mondadori, ha infine curato un’antologia delle poesie di Tomas Tranströmer.
(ANSA). PER 02-MAG-06 17:37 NNNN